Il
fenomeno delle “spose bambine” è sempre più presente in alcuni Paesi
del Sud del mondo. In Ciad, l’ong italiana Coopi ha un progetto che
aiuta queste giovani donne a riprendersi la libertà e a sfuggire ai
matrimoni precoci.
Younous Abdoulay, 15 anni. Foto scattata da Sara Magni |
Il 5 settembre 2014
presso il Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite, a New York, si è tenuto
il dibattito pubblico degli esperti sul tema dei matrimoni precoci
forzati di giovani donne e bambine a livello mondiale. Il dibattito ha
contribuito ad accrescere la consapevolezza dell’impatto drammatico
che questi matrimoni hanno sulle loro vittime, dei costi che questo
fenomeno ha per lo sviluppo dell’intera società e della necessità di
intervenire per mettere fine a questa pratica.
Secondo le stime di
Unicef, 700 milioni di giovani ragazze nel mondo sono vittime di
matrimoni precoci forzati in età inferiore ai 18 anni, un numero molto
elevato che fa capire come in molti Paesi, in particolare nelle aree
rurali e più povere, questa pratica sia comunemente accettata. Invece,
si tratta di una vera e propria violazione dei diritti umani con effetti
devastanti e conseguenze a lungo termine per la realizzazione personale
di milioni di ragazze e il mancato godimento della loro età e dei loro
diritti, soprattutto quelli legati alla libertà, all’educazione, alla
salute, alla riproduzione sessuale e all’accesso all’informazione; basti
pensare che la maggior parte di questi matrimoni non sono registrati e
nemmeno lo sono le nascite che ne derivano, rendendo difficile
determinare l’entità reale del fenomeno.
Secondo la Convenzione sui diritti dell’infanzia
è necessario rispettare la soglia dei 18 anni di età per poter
contrarre matrimonio, ma molti Paesi non hanno aderito o non rispettano
questa norma. I matrimoni precoci impediscono il pieno sviluppo delle
bambine, sia dal punto vista dell’educazione che da quello economico,
ostacolano le opportunità di crescita personale e di conseguenza
limitano lo sviluppo anche dei bambini nati da tali matrimoni perché le
giovani madri non sono in grado di prendersene cura in maniera adeguata.
Questa pratica è dunque un crimine e non un matrimonio, a causa della
violazione dei tanti diritti umani che comporta e della mancanza di
consenso da parte delle bambine.
Ma cosa si può fare per
affrontare questo problema?
Le azioni possono essere diverse.
Innanzitutto, introdurre politiche e leggi in linea con le convenzioni
internazionali che salvaguardano i diritti umani e i diritti dei
bambini, garantire l’accesso delle bambine all’istruzione, aumentare la
consapevolezza tra le famiglie e le comunità (affinché si capisca che è
un’imposizione della società a cui ci si può ribellare), predisporre
spazi e luoghi di ascolto dove le ragazze possano sentirsi libere di
sfogarsi e raccontare i loro problemi.
Alcune di queste azioni le sta
portando avanti l’ong italiana Coopi in Ciad, Paese dell’Africa
subsahariana in cui si registra un elevato numero di spose bambine e
dove Coopi gestisce centri di salute per la maternità e la cura
infantile: luoghi in cui le ragazze possono sentirsi al sicuro e
raccontare le loro storie di piccole donne costrette a diventare grandi
in poco tempo, quando vengono affidate a uno sposo che le considera di
sua proprietà e a cui devono obbedire come a un padrone.
L’intervento
di Coopi ha portato diverse donne a scegliere la via della ribellione e
a rifiutare l’imposizione dei genitori, dei parenti e delle tradizioni
locali.
“Mio padre mi ha dato in sposa a 11 anni, a 13 ho avuto il primo
figlio” spiega una ragazza rimboccando i veli dal volto.
“Io sono stata
data in sposa come terza moglie a un cugino, per fargli avere figli
maschi”, piega lo sguardo dentro la stoffa una bambina.
“Non sono felice
con l’uomo che mi hanno dato i miei genitori: ho trovato il coraggio di
parlare con loro e abbiamo deciso di ripagargli la dote per liberarmi
dal vincolo. Io per ora vorrei solo andare a scuola”, esordisce Gouglja,
16 anni, sposa a 13, analfabeta nonostante l’obbligo scolastico.
In
questi casi intervengono i comitati di donne, sempre nati in seno ai
progetti di Coopi, che sensibilizzano le famiglie a trovare una
soluzione.
“Ne abbiamo viste di tragedie, di sangue e di lacrime”, tira
le fila la più anziana del gruppo.
“Questo Paese è fatto così. Ma anche
il vento che soffia sempre nello stesso verso, a un tratto, può mutare:
tutte insieme, ognuna con la propria forza, possiamo cercare di aiutarci
e cambiare la situazione”.
Maria Teresa Loteni
coordinatrice delle sedi Veneto di Coopi
FONTE: http://www.primepagine.info/le-spose-bambine/
Nessun commento:
Posta un commento