giovedì 12 febbraio 2015

Le spose bambine

Il fenomeno delle “spose bambine” è sempre più presente in alcuni Paesi del Sud del mondo. In Ciad, l’ong italiana Coopi ha un progetto che aiuta queste giovani donne a riprendersi la libertà e a sfuggire ai matrimoni precoci.

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Younous Abdoulay, 15 anni. Foto scattata da Sara Magni
Il 5 settembre 2014 presso il Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite, a New York, si è tenuto il dibattito pubblico degli esperti sul tema dei matrimoni precoci forzati di giovani donne e bambine a livello mondiale. Il dibattito ha contribuito ad accrescere la consapevolezza dell’impatto drammatico che questi matrimoni hanno sulle loro vittime, dei costi che questo fenomeno ha per lo sviluppo dell’intera società e della necessità di intervenire per mettere fine a questa pratica.

Secondo le stime di Unicef, 700 milioni di giovani ragazze nel mondo sono vittime di matrimoni precoci forzati in età inferiore ai 18 anni, un numero molto elevato che fa capire come in molti Paesi, in particolare nelle aree rurali e più povere, questa pratica sia comunemente accettata. Invece, si tratta di una vera e propria violazione dei diritti umani con effetti devastanti e conseguenze a lungo termine per la realizzazione personale di milioni di ragazze e il mancato godimento della loro età e dei loro diritti, soprattutto quelli legati alla libertà, all’educazione, alla salute, alla riproduzione sessuale e all’accesso all’informazione; basti pensare che la maggior parte di questi matrimoni non sono registrati e nemmeno lo sono le nascite che ne derivano, rendendo difficile determinare l’entità reale del fenomeno.

Secondo la Convenzione sui diritti dell’infanzia è necessario rispettare la soglia dei 18 anni di età per poter contrarre matrimonio, ma molti Paesi non hanno aderito o non rispettano questa norma. I matrimoni precoci impediscono il pieno sviluppo delle bambine, sia dal punto vista dell’educazione che da quello economico, ostacolano le opportunità di crescita personale e di conseguenza limitano lo sviluppo anche dei bambini nati da tali matrimoni perché le giovani madri non sono in grado di prendersene cura in maniera adeguata.
Questa pratica è dunque un crimine e non un matrimonio, a causa della violazione dei tanti diritti umani che comporta e della mancanza di consenso da parte delle bambine.

Ma cosa si può fare per affrontare questo problema?
Le azioni possono essere diverse. Innanzitutto, introdurre politiche e leggi in linea con le convenzioni internazionali che salvaguardano i diritti umani e i diritti dei bambini, garantire l’accesso delle bambine all’istruzione, aumentare la consapevolezza tra le famiglie e le comunità (affinché si capisca che è un’imposizione della società a cui ci si può ribellare), predisporre spazi e luoghi di ascolto dove le ragazze possano sentirsi libere di sfogarsi e raccontare i loro problemi.
Alcune di queste azioni le sta portando avanti l’ong italiana Coopi in Ciad, Paese dell’Africa subsahariana in cui si registra un elevato numero di spose bambine e dove Coopi gestisce centri di salute per la maternità e la cura infantile: luoghi in cui le ragazze possono sentirsi al sicuro e raccontare le loro storie di piccole donne costrette a diventare grandi in poco tempo, quando vengono affidate a uno sposo che le considera di sua proprietà e a cui devono obbedire come a un padrone.

L’intervento di Coopi ha portato diverse donne a scegliere la via della ribellione e a rifiutare l’imposizione dei genitori, dei parenti e delle tradizioni locali.

“Mio padre mi ha dato in sposa a 11 anni, a 13 ho avuto il primo figlio” spiega una ragazza rimboccando i veli dal volto.
“Io sono stata data in sposa come terza moglie a un cugino, per fargli avere figli maschi”, piega lo sguardo dentro la stoffa una bambina.
“Non sono felice con l’uomo che mi hanno dato i miei genitori: ho trovato il coraggio di parlare con loro e abbiamo deciso di ripagargli la dote per liberarmi dal vincolo. Io per ora vorrei solo andare a scuola”, esordisce Gouglja, 16 anni, sposa a 13, analfabeta nonostante l’obbligo scolastico.
In questi casi intervengono i comitati di donne, sempre nati in seno ai progetti di Coopi, che sensibilizzano le famiglie a trovare una soluzione.
“Ne abbiamo viste di tragedie, di sangue e di lacrime”, tira le fila la più anziana del gruppo.
“Questo Paese è fatto così. Ma anche il vento che soffia sempre nello stesso verso, a un tratto, può mutare: tutte insieme, ognuna con la propria forza, possiamo cercare di aiutarci e cambiare la situazione”.

Maria Teresa Loteni
coordinatrice delle sedi Veneto di Coopi




FONTE: http://www.primepagine.info/le-spose-bambine/

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