martedì 19 gennaio 2016

Bullismo

questo commento contro il bullismo è stato scritto il 17 gennaio 2016 da un insegnante di Pordenone, il Prof. Enrico Galiano


Oggi una ragazza della mia città ha cercato di uccidersi.
Ha preso e si è buttata dal secondo piano.
No, non è morta. Ma la botta che ha preso ha rischiato di farle prendere la spina dorsale. Per poco non le succedeva qualcosa di forse peggiore della morte: la condanna a restare tutta la vita immobile e senza poter comunicare con gli altri normalmente.


“Adesso sarete contenti”, ha scritto. Parlava ai suoi compagni.

Allora io adesso vi dico una cosa. E sarò un po’ duro, vi avverto. Ma c’ho ‘sta cosa dentro ed è difficile lasciarla lì.

Quando la finirete?
Quando finirete di mettervi in due, in tre, in cinque, in dieci contro uno?
Quando finirete di far finta che le parole non siano importanti, che siano “solo parole”, che non abbiano conseguenze, e poi di mettervi lì a scrivere quei messaggi – li ho letti, sì, i messaggi che siete capaci di scrivere – tutte le vostre “troia di merda”, i vostri “figlio di puttana”, i vostri “devi morire”.

Quando la finirete di dire “Ma sì, io scherzavo” dopo essere stati capaci di scrivere “non meriti di esistere”?
Quando la finirete di ridere, e di ridere così forte, quando passa la ragazza grassa, quando la finirete di indicare col dito il ragazzo “che ha il professore di sostegno”, quando la finirete di dividere il mondo in fighi e sfigati?

Che cosa deve ancora succedere, perché la finiate? Che cosa aspettate? Che tocchi al vostro compagno, alla vostra amica, a vostra sorella, a voi?

E poi voi. Voi genitori, sì. Voi che i vostri figli sono quelli capaci di scrivere certi messaggi. O quelli che ridono così forte.
Quando la finirete di chiudere un occhio?
Quando la finirete di dire “Ma sì, ragazzate”?
Quando la finirete di non avere idea di che diavolo ci fanno 8 ore al giorno i vostri figli con quel telefono?

Quando la finirete di non leggere neanche le note e le comunicazioni che scriviamo sul libretto personale?
Quando la finirete di venire da noi insegnanti una volta l’anno (se va bene)?
Quando inizierete a spiegare ai vostri figli che la diversità non è una malattia, o un fatto da deridere, quando inizierete a non essere voi i primi a farlo, perché da sempre non sono le parole ma gli esempi, gli insegnamenti migliori? 

Perché quando una ragazzina di dodici anni prova a buttarsi di sotto, non è solo una ragazzina di dodici anni che lo sta facendo: siamo tutti noi. E se una ragazzina di quell’età decide di buttarsi, non lo sta facendo da sola: una piccola spinta arriva da tutti quelli che erano lì non hanno visto, non hanno fatto, non hanno detto.

E tutti noi, proprio tutti, siamo quelli che quando succedono cose come questa devono vedere, fare, dire. Anzi urlare. Una parola, una sola, che è: “Basta”.


Su questo suo post i commenti sono arrivati a quota 6.863, ma di certo non se ne era accorto che stavano aumentando quando ieri (20 gennaio) ha deciso di scrivere il seguente post:

(rispondere a 4 mila commenti è un po' duretta, così ho scritto 'sta roba qui)

E insomma ieri sono entrato in classe e niente lezione: via libri, esercizi, quaderni, perché quando succede una cosa come questa come fai a far finta di niente, come fai a parlargli di analisi logica, quando nemmeno tu lo sai più dove sta, la logica.
Ce li avevo lì davanti, loro, ragazzini della stessa età della ragazza, stesse facce, stessi brufoli, stesse paure, stessi apparecchi per i denti, stessi capelli che non stanno mai come vorresti, stessi occhi persi, stessi genitori che non capiscono, stessi insegnanti che stressano.
Stessi fianchi troppo grossi, stessi sogni troppo grandi. 

Come glielo dici, a quegli occhi lì, che una ragazza come loro ha guardato una finestra ed è stata come risucchiata, che un mattino come tanti si è alzata e ha pensato che non avrebbe più voluto farlo? Dura, sì, dura. Non le trovi subito, le parole. Perché loro lo sanno benissimo, come ci si sente. Noi qui, grandi, spalle forti, adulti che ormai hanno un posto nel mondo, noi che “ma sì ci siamo passati tutti”. In realtà, ed è ora che ce ne rendiamo conto, no: non ci siamo già passati tutti.

Oggi è diverso. Una volta, se eri vittima di persecuzioni, potevi tornare a casa, chiuderti in camera, lasciare il mondo fuori. Oggi il mondo, se ti vuole male, ti segue anche lì. Non ti molla mai.

Molti hanno commentato, detto la loro, giudicato, ma la descrizione migliore di come ci si sente me l’ha data Eleonora, anni 13, quando mi ha detto “Ti senti sempre sporca. Ti lavi, tu, ma poi ti senti lo stesso sporca”.

A vent’anni, a trenta, le parole degli altri riesci a fartele scivolare via. A dodici no. A dodici interiorizzi tutto. A dodici interiorizzi anche se uno ti dice solo “Ciao”. Figuriamoci “Spero che tu muoia”.
Certe cose, se succedono a dodici anni, ti restano attaccate a vita.

E poi quasi tutti lì a pensare a come punire, a cosa fare, alcuni con parole che mi vergogno che siano comparse sulla mia bacheca, come “li vorrei buttare loro dalla finestra”.
Posso dirvelo? Non avete capito niente.

Certo che bisogna pensare a come punire. Ma è il prima la cosa importante. Arrivare al punto che un ragazzo di dodici anni lo sappia quanto male può fare: ma prima di farlo. Occorre spiegare loro che non si uccide la gente, che rubare è sbagliato, che rompere le cose degli altri non si fa? No, perché lo sanno già.

Ebbene, vi svelo un segreto: molti di loro non ci vedono nulla di così sbagliato nello scrivere “devi morire” su whatsapp a una loro coetanea.
E qui sbagliamo tutti. Genitori, insegnanti, tutti. Se un ragazzo a quell’età non si rende conto di quanto male possono fare le parole, non è perché “è cattivo”: è perché non glielo abbiamo insegnato. Se trova “divertente” prendere in giro il turbante del compagno, lanciare cartacce in faccia alla ragazza timida e impacciata, è perché non gli abbiamo insegnato che cos’è la diversità, il rispetto per le differenze, la curiosità per l’altro.

Quante volte abbiamo preferito andare avanti, fare lezione, anche se avevamo davanti ragazzi che stavano malissimo e glielo vedevi chiaro in faccia?
Quante volte abbiamo detto anche noi “ragazzate”, quando se andavi un po’ più a fondo ti saresti forse reso conto che era molto più grave?
Quante volte non con le parole, ma con il nostro comportamento, noi stessi non siamo stati un buon esempio?

Non ci sono colpevoli o non colpevoli, quando una ragazza di dodici anni fa una cosa del genere. Quando succede, valgono le parole di Prince Escalus alla fine di Romeo e Giulietta, e cioè: “Tutti sono puniti”.
Non sono stati i tre o quattro bulli. Siamo stati tutti.
 

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